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Domenico Caiazza

 

LA TERRA E IL CASTELLO DI GIOIA SANNITICA

(in Scuola Media Statale “L. Settembrini”, Gioia Sannitica – della città e del borgo, 2000, pp. 34-43)

 

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Il Castello (Gioia Sannitica)

Neppure la fondazione nel medioevo di un mastio e di un circostante nucleo abitato fortificato riuscì ad attrarre in un unico polo tutta la popolazione, ed anzi l’incastellamento fallì precocemente e ne restano solo i ruderi.

Si levano dominanti su una aspra verticale parete di roccia calcarea rivestita dal bosco sicché il castello di Gioia, spopolato forse dal terremoto o da pestilenza o semplicemente dall’abbandono per più comode posizioni, è tra i borghetti medievali meglio conservati e più suggestivi della provincia di Caserta e meriterebbe particolare studio.

Lo si raggiunge dalla frazione Caselle seguendo una stradina che mena in alto verso il valico. Lasciata l’auto si prosegue a piedi per una pista tra gli alberi. Tra spiazzi, ancora coltivati a grano o granturco si raggiunge il limite del bosco e, rasentato il rudere di una chiesa medievale extra moenia e a nave unica absidata, dedicata a S. Salvatore, si raggiunge la semplice cortina esterna delle mura.

Questa difende solo il lato nord del colle essendo i restanti lati inaccessibili per il burrone. È realizzata in buona muratura di pietre calcaree informi di piccola e media pezzatura legate con malta, da una torre semicircolare a nord-ovest ed una torre a becco d’aquila o a puntone ad est, seguita da un’altra torretta semicircolare.

Il varco d’accesso al borgo, ingigantito dalla spoliazione degli stipiti, non era sovrastato né fiancheggiato da torri, come normalmente avviene. Tuttavia il segmento di cortina nel quale si apre la porta è arretrato rispetto ai prolungamenti sui due lati. Ciò determina una doppia sfalsatura a baionetta, in pratica equivalente a due torri, dalle quali era possibile da apposite saettiere il tiro di fianco sugli assalitori. A est della porta la cortina subisce ben due sfalsature. Non pare vi fossero merlature e le saettiere conservate erano utilizzabili solo per l’arco e non pure per le balestre, e tanto meno per archibugi, e dunque indiziano una notevole antichità del muro.

Dietro la cortina muraria, verso est, un ampio spazio privo di abitazioni era dominato dalla torre e dal palazzo fortificato apicali. Quest’area priva di ripari era destinata a trasformarsi in una trappola per l’assalitore che avesse valicato la prima cortina.

Entrando dalla porta del borgo il castello rimane a sinistra e consiste in un edificio a forma più o meno di un trapezio regolare con la base maggiore a nord. Gli ambienti in numero di sei tra grandi e piccoli, erano imperniati intorno ad un cortile centrale pure trapezoidale ed erano distribuiti lungo le murature perimetrali.

Nei pressi dell’angolo nord ovest si levano poderosi e dominanti, i resti di una torre cilindrica che soprelevava la base di una precedente torre quadrata.

Uno stretto passaggio tra questo mastio ed il dirupo meridionale consente di accedere alla porta del castello. Attraversata questa, sormontata da un arco gotico, si entra nel cortile sorvegliato a sinistra dalla torre mastia e, a destra, dai ruderi del palazzo fortificato di cui sopravvive l’intera parete orientale. Si notano i resti di un grande camino la cui canna fu poi murata, merli ed alcune saettiere.

Le mura mostrano rifacimenti e sovrapposizioni e congiunzioni. Ma è indubbio che dove era il camino era la grande sala del castello e forse il dongione originario poi ampliato con una stanza a sud ed altra a nord. Un altro grande ambiente soprastante la porta collegava il palazzo alla torre mastia. A nord di questa possono riconoscersi ambienti di servizio e forse una cappella. Vi è anche una cisterna ipogea.

Più ad est del palazzo, stretti tra la torre pentagonale ed il dirupo, sono scarsi i resti di almeno tre edifici articolati in una decina di vani dalle pareti non sempre ortogonali, forse magazzini e residenze. Il grosso dell’abitato si stendeva, però ad ovest della torre mastia e del portone d’ingresso, laddove tra il dirupo a sud e la cortina muraria a nord, si conserva un fitto tessuto di edifici in muratura di pietra calcarea legata con malta, a pianta per lo più rettangolare o poligonale. Sembra di poter ricostruire edifici di tre stanze tra loro addossate ma non comunicanti, e solo sul burrone a sud è un edificio più complesso ed ampio e con vani comunicanti.

Gli ambienti, per lo più di dimensione medio piccola, sono in numero di circa 40, edificati sulla roccia calcarea affiorante ed apparentemente privi di pavimento. Per l’assenza di finestre e camini si tenderebbe a considerarli magazzini o stalle. Tuttavia non pare che fossero soprelevati ma che abbiano subito solo lo spoglio od il crollo di solai e coperture, sicché dovrebbe trattarsi per lo più di abitazioni. È chiaro che solo parte della popolazione abitava stabilmente nel borgo recintato ed è ipotizzabile che altre case in materiale deperibile fossero attorno a S. Salvatore e che, sicuramente esistevano i casali più a valle dai quali nelle situazioni di pericolo confluivano nel borgo gli abitanti, ma solo lo scavo e la documentazione analitica e puntuale degli ambienti potrà consentire di capire in che modo venissero usati e da quante famiglie. Con tale indagine e con l’analisi delle ceramiche sarà anche possibile meglio documentare la cronologia dell’abitato per la quale, allo stato, dobbiamo accontentarci solo di qualche dato desumibile dall’esame delle tipologie edilizie delle mura e del palazzo sommitale.

Abbiamo visto che le mura esterne e del maniero sono anteriori alla diffusione della balestra perché munite solo di feritoie per il tiro con l’arco, sono dunque anteriori al XIII secolo durante il quale nel Regno era diffuso e massiccio l’impiego di balistari. (R.C.A. XXIV, 79).

La semplicità dello schema dell’impianto castello-borgo rammenta quello dei primi insediamenti normanni consistenti in una torre ed una palizzata difendibile anche col tiro degli arcieri dalla torre. L’assenza di scarpe e di difese piombanti è altro indizio di antichità ed infine deve considerarsi che all’epoca delle feroci lotte tra Ruggero il Normanno e suo cognato Rainulfo d’Alife, anche in questa zona vi fu l’imperativa necessità di munirsi di difese.

La menzione nel Catalogus Baronum ci accerta l’esistenza di un feudatario, e presumibilmente del suo maniero, in epoca normanna, tuttavia no può escludersi antichità maggiore della fortificazione.

Infatti da un lato qui non è replicato lo schema anulare di impianto delle normanne Aversa e Pietramelara, dall’altro la tecnica muraria a semplice cortina di muratura di piccole pietre, l’uso delle sfalsature e piegatura ad angolo delle cortine per consentire il tiro fiancheggiante senza costruire torri sembrano indicare una più remota data di costruzione.

Andrà infatti verificato se, come appare probabile, la fase più antica delle mura di Gioia sia comparabile alle difese della Rocca di S. Vito, sull’altopiano di Roccavecchia di Pratella, devastata dai Saraceni nell’846 e dunque esistenti ben prima dell’incastellamento normanno (Caiazza 1996, 291-399 e 1999), o della Rocca di S. Agata sul Tifata sicuramente esistente ai primi del XI sec. allorquando vi si annidò Pandolfo IV Principe di Capua, nella quale pure si conservano cortine con sfalsature “a baionetta” (Natella-Peduto 1994, 407-411).

L’esame di rifacimenti, sarciture e giustapposizioni delle murature del maniero rende poi evidente che la rocca prenormanna o normanna fu squassata da eventi bellici o assai più probabilmente da un terremoto.

La riedificazione di edifici crollati è indiziata dalla gran quantità di tegole di recupero frammiste alla muratura calcarea e dalla ricostruzione a pianta circolare della torre in precedenza quadrata.

Si direbbe, ad un primo sommario esame, che la ristrutturazione sia avvenuta in età svevo-angioina durante la quale fu rafforzata la cortina esterna, rifatto con archi gotici il portale del castello che guarda a sud e furono sarciti i danni nell’angolo nord della parete orientale del palazzo. Infatti qui la parete fu soprelevata con spigolo in conci di tufo ed incamiciata da nuova muratura a leggera scarpa nella parte bassa. A tale epoca deve risalire il raddoppio della cortina muraria esterna e la torre a becco d’aquila.

Poi, forse, il terremoto del 1394 che distrusse la vicina Telesia diede il colpo di grazia alle strutture del palazzo e della torre mastia, più alte e vulnerabili delle basse case del borgo.

È anche possibile che il territorio ed il castello di Gioia probabilmente infeudati a Onorato Gaetani Conte di Fondi, siano stati interessati dalle furiose devastazioni belliche che durante la Congiura dei Baroni si abbatterono nell’agro di Piedimonte. Allora i Piedimontesi di Onorato Gaetani, di parte regia, distrussero e saccheggiarono Alife, appartenente al ribelle Marino Marzano, Principe di Rossanoe duca di Sessa, che ricambiò con violenze non minori se è vero che le terre di Piedimonte

 

maxima substinuerunt damnorum e detrimentorum incommoda, agrorum, vinearum, olivetorum, et jardinorum depopulationes combusiones, cedes, rapinas, capturas personarum redmptiones et rescaptus earum ac vulnera (Marrocco, 1965, 15).

 

Come abbiamo già visto Carattano, antico feudo dell’Abbazia di S. Salvatore, fu investita in pieno, probabilmente sempre dalle genti di Onorato Gaetano di Piedimonte:

 

Verso la fine d’ottobre 1459... Carattano, saccheggiata e distrutta, cessò di essere università, e l’abate Mattia, fautore dell’invasore se ne andò in esilio. Il re, per mezzo del suo commissario Nicola de Mastrobuono, si impossessò di tutti i feudi di S. Salvatore con un istromento redatto da notaio Bartolomeo Merenda: e ne affidò l’amministrazione al magnifico Caprio Riccio di Faicchio, medico della Terra di Gioia. Questo risulta da un processo agitato nel 1487 nella Gran Corte della Vicaria tra l’Abate di S. Salvatore e l’Università di Gioia.. I documenti relativi sono nell’archivio comunale di Piedimonte d’Alife. (Marrocco 1951, 17-18).

 

La lite del 1487 che aveva ad oggetto l’esercizio dei diritti di uso civico nel territorio di Carattano (Marrocco 1963, 3, 18) che evidentemente gli abitanti di Gioia pretendevano di esercitare o di fatto esercitavano, vide prevalere l’Abate, ma fu solo la prima di una lunga serie. Ancora nel 1754, nel parlamento del 26 aprile, l’Università di Piedimonte esaminava la questione con Gioia e precisamente

 

la pretensione di quella di voler fidare gli animali dei cittadini di questa città e suoi casali, che vanno a pascolare nel feudo di Carattano, che per lo Gius di pascolare e pernottare, e legnare corrisponde questa Università all’Abbate beneficiario di detto feudo di Carattano annui ducati sei.

 

Veniva data procura al dott. Tiburzio de Parillis, di Piedimonte, residente in Napoli che difese la stessa causa anni addietro (Ricciardi 1916- 11). Le liti sopravvissero al feudalesimo. Infatti dopo l’eversione della feudalità il feudo di Carattano fu attribuito per metà all’Università di Gioia in compenso degli usi civici e per l’altra metà divenne dei Gaetani d’Aragona; ma Piedimonte vantava usi civici e la causa venne definita solo nel 1928 (Marrocco 1963, 3, 21).

Comunque dall’essere l’amministratore del feudo distrutto e confiscato un medico di Gioia e dalla stessa capacità di agire o resistere nella lite del 1487, pare di evincere che la comunità di Gioia fu meno turbata dagli eventi bellici della Congiura dei Baroni.

Tuttavia non sappiamo se in questi frangenti il castello fu investito, con conseguente decadenza, o se, come è più probabile, fu risparmiato come sembrerebbe testimoniato dal buono stato delle cortine. Poiché non conosciamo con certezza la data dell’abbandono del borgo e del castello non può escludersi uno spopolamento in epoca precedente la prima metà del Quattrocento visto che non si notano tracce di architetture tardogotiche o durazzesco-catalane. Inoltre ad un primo esame, esclusivamente superficiale, nel borgo non sono stati rinvenuti frammenti ceramici successivi al XIV sec. Ciò lascia pensare ad un abbandono del castello a seguito del terremoto e soprattutto delle pestilenze di quel secolo che determinarono anche lo spopolamento di Torcino e del Castello delle Pentime disposti lungo il Volturno.

È però evidente che allorché, ai primi del 1500, fu realizzato a quota più bassa il palazzo ducale, ora adibito a ristorante, il castello doveva essere disabitato o aveva quantomeno perso la funzione di residenza padronale.

La conferma dell’avvenuto abbandono del castello, già indiziata dall’analisi delle emergenze superstiti, ci viene da una descrizione dei primi decenni del Cinquecento (Cortese 137):

 

El castillo de Johia en Tierra de Lavor.

Este castillo fué de Joan Cola Gaytano y lo tiene, por concessione del Principe, Bonbardon, que se lo diò por muerte del capitan Miranda ; està situada en lo alto de un bel monte; tiene muros viejos y està desabitado, que todos lo vassallos estan en los casales infrascriptos, y quando ay guerra se sube a lo alto qu’està fuerte:

El casal de Amicune,li Colle, li Sorani, Castello Orso, Curte, le Castelle, li Anduni.

Solian ser ciento y veynte fuegos, y por la peste se ha mucho diminuydo; es tierra fértil que puede volver en su ser presto; tiene el baron una buena casa nueva que non es acabada en el casal de Amicune; tiene bosques y territorios seminatorios; es tierra fértil de granos y ganados porque tiene herbaies y bosque; confina con Pie de Monte y Lameruso y a XXX milas de Napoles.

Vale d’entrada al baron cad’año quatrozientos veyntesiete ducados, como parece en el libro tercero, a cartas 296.

Valerian a vendere, porqu’es buena cosa, ocho mil ducados de oro.

Cargos. Ylaria de la Marra, muger de Joan Cola Gaetano, tiene, por sentencia, sobr’esta tierra mil trezientos doze ducados por sus dotes.

 

Il brano è prezioso anche perché ci rivela il nome dell’ex feudatario, Giovanni Nicola Gaetani, detto don Cola.

Figlio secondogenito di Onorato Gaetani d’Aragona, Duca di Traietto, Conte di Fondi e Principe di Altamura, Joan Cola fu, col fratello Federico, Conte di Fondi, tra i feudatari filofrancesi che si sollevarono con l’invasione di Lautrec, si distinse contro gli Spagnoli a Gaeta e perciò fu privato del feudo dagli Spagnoli vincitori. Condannato a morte fu escluso nel 1530 da ogni clemenza, e giustiziato a Napoli in Piazza Mercato (Santoro 278).

Sua moglie era Ilaria della Marra che continuò a riscuotere la rendita dotale anche dopo la confisca del feudo.

È anche lecito immaginare che la pregevole casa del barone, definita nel documento nuova e non ancora terminata sita nel casale Amoconi, coincida col palazzo ora adibito a ristorante e che la costruzione sia stata iniziata proprio da Cola Gaetani.

Il feudo comunque, tornò ai Gaetani dopo che Carlo V nel 1532

 

ne fece concessione ad Ugone Villalumo, col dritto dell’alienazione. Il Villalumo nel 1534 vendette il feudo da quell’imperatore concessogli a D. Gabriele Barone per ducati 5.000 – Con istrumento del 2 giugno 1537 rinunziò il venditore Villalumo ad dritto di ricomprare riserbato nel 1534 ed intercedette la reale adesione al possesso del feudo del Villalumo alla famiglia Barone.

Con istromento per notar Giacomo Cristiani di Napoli del 21 maggio 1613 il Sig. Don Luigi Barone, successore di Gabriele acquirente permutò con don Alfonso Gaetani, Duca temporaneo di Laurenzana il feudo di Gioia pervenutogli dal Villalumo e gli cedé l’utile possesso. (Mennone 128).

 

Per chi volesse ricostruire la successione feudale nel XVI secolo segnaliamo che nel 1517 fu agitata una causa tra il Regio Fisco e Mazzeo Mastrogiudice per il possesso della terra di Gioia, (A.S.C. I, 1, 197 e 2-3, 157). Sebbene il documento non specifichi se si tratti di Gioia in Terra di Lavoro potrebbe trattarsi del nostro castello.

Durante la dominazione spagnola un segno di vitalità è dato dalla pergamena del 20 luglio 1539 col quale il Viceré Don Pietro di Toledo, su sollecitazione del feudatario di Gioia don Gabriele Barone, Presidente della Regia Camera della Sommaria, e degli uomini dell’Università concedeva a questa di istituire un mercato il mercoledì (Marrocco 1963, 2).

Non è indicato il luogo del mercato ma, poiché già da decenni il feudatario ed i suoi agenti e la popolazione erano scesi verso i casali siti più in basso, forse attirati dalla sorgente vicina, è evidente che il mercato si tenne in uno dei casali a valle del castello.

Unica funzione residuale del borgo, che si ricava dalla descrizione di epoca spagnola, fu il temporaneo riutilizzo nelle emergenze belliche, e la notazione era probabilmente riferita agli accadimenti della Congiura o dell’invasione di Lautrec.

Il documento ci informa pure che gli abitanti prima della peste ammontavano a 120 fuochi, che moltiplicati per sei persone a fuoco, media accettabile, consentono di calcolare una popolazione di circa 700 persone.

Il dato non si discosta troppo da quello della numerazione dei fuochi del 1532 come dallo specchio che segue, desunto dal Giustiniani, salvo che per il primo rigo derivato da R.C.A., II, 220:

 

ANNO

FUOCHI

ABITANTI

1268

28

168

1532

109

654

1545

139

834

1561

157

942

1595

221

1326

1648

200

1200

1669

170

1020

 

Si noti la flessione dopo la pestilenza della metà del Seicento. Nelle numerazioni dei fuochi riportate dal Beltrano, che pubblica nel 1644, Gioia risulta avere 157 abitanti nella vecchia, che dovrebbe essere, data la coincidenza di cifre, quella del 1561, e 219 nella nuova, che più o meno coincide con quella del 1595. Allorquando il Beltrano pubblicava Gioia era anche “camera riservata”, cioè comune esentato dall’acquartieramento delle truppe di transito.

Neppure l’incremento demografico, che vide salire a 1800 gli abitanti ai primi dell’Ottocento, determinò la rioccupazione del castello che perciò ci conserva le tracce di un abitato medievale fossilizzato il cui studio potrà restituirci preziose informazioni sui modi di vita tra X-XI e XIV sec. d.C. e darci elementi per la comparazione, la valutazione e la datazione di tipologie edilizie, difensive e insediative dei borghi della fascia matesina.

Ma non è questo l’unico motivo di interesse del borgo aggrappato alla rupe come un nido di rapaci. Un tempo fu forse teatro di aspre contese e di cruenti fatti d’armi, poi, squassato dal sismo e abbandonato dagli uomini, fu popolato solo da animali selvatici e leggendari fantasmi.

Giunte ormai nel terzo millennio le mura che poderose e nitide si stagliano sul verde dei boschi oltre che una splendida testimonianza del passato sono un impareggiabile osservatorio sul panorama dell’Alta Terra di Lavoro ed un luogo di rara suggestione da inserire, immancabilmente, negli itinerari storico archeologici e naturalistici del Matese.

 

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